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Transizione

Cibo e salvaguardia del pianeta. Parla Stefano Liberti

Il giornalista Stefano Liberti, esperto di alimentazione, ci parla di come bisognerebbe ripensare totalmente la filiera agroalimentare, specie gli allevamenti intensivi, per contrastare la crisi climatica.

Per salvare il pianeta occorre ripensare completamente la filiera agroalimentare, e in particolare gli allevamenti intensivi che contribuiscono in maniera corposa alle emissioni di CO2. Anche perché nel 2050, secondo l'Onu, saremo quasi 10 miliardi di persone sulla Terra. Ci sarà cibo per tutti? Lo abbiamo chiesto al giornalista Stefano Liberti, esperto della materia e autore di libri-inchiesta come "I signori del cibo. Viaggio nell'industria alimentare che uccide il pianeta" (minimum fax, 2016) e "Terra bruciata. Come la crisi alimentare sta cambiando l'Italia e la nostra vita" (Rizzoli, 2020).

Il cibo, dalla soia al tonno, è diventato un prodotto finanziario: questo è compatibile con la salvaguardia del pianeta?

«Negli ultimi anni sul cibo c’è stato un crescente interesse di gruppi finanziari che non avevano alcuna tradizione nella partecipazione in filiere agroalimentari. È stato anche il risultato della crisi finanziaria, che ha fatto sì che in molti pensassero di dirottare i loro investimenti su un settore promettente come quello alimentare, che infatti è considerato un bene rifugio. La popolazione aumenta, nutrirsi è un bisogno primario ma le risorse diminuiscono, dunque i prezzi salgono e di conseguenza i profitti. Il problema però è che a questi gruppi interessano i profitti e non la rigenerazione degli ecosistemi: io li definisco “aziende-locusta”, perché si spostano come delle locuste da un Paese all’altro, depredandolo finché conviene e poi passando al successivo. Un meccanismo incompatibile con la salvaguardia del pianeta e anche ingiusto dal punto di vista sociale, visto che i piccoli produttori vengono estromessi dal mercato».

Nel 2050 secondo l’Onu saremo in 9 miliardi sulla Terra. Un’agricoltura più sostenibile è necessaria ma sarà sufficiente a sfamare tutti?

«Su questo dico che il dibattito è un po’ falsato. La vulgata si limita a invocare l’aumento della produttività, ma aggiungo che andrebbero prima di tutto razionalizzate le risorse. Intanto, impegnandoci nella riduzione degli sprechi alimentari: oggi 1/3 del cibo, sia in fase di produzione sia di consumo, viene buttato. Poi c’è la questione degli allevamenti, nei quali ogni anno transitano 70 miliardi di animali (soprattutto pollame ma anche suini e bovini), che vanno a loro volta nutriti e consumano enormi risorse. Oggi 1/3 delle terre arabili è utilizzato per produrre mangimi per animali, ma se il trend di crescita del consumo di carne, soprattutto in Cina, dovesse essere confermato nei prossimi anni, servirebbero 120 miliardi di animali e la proporzione di terre arabili destinate a nutrire gli animali salirebbe a 2/3, lasciando poco spazio all’agricoltura da consumo umano. Così il sistema diventa del tutto insostenibile».

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Negli allevamenti ogni anno transitano 70 miliardi di animali (soprattutto pollame ma anche suini e bovini), che vanno a loro volta nutriti e consumano enormi risorse (Matthias Zomer/Pexels.com)

Come andrebbe risolta la questione degli allevamenti e con cosa potremmo sostituire la carne e anche il pesce?

«Sulla carne dipende molto dalla Cina, che ha la capacità attraverso scelte politiche di orientare l’alimentazione della propria popolazione in modo massiccio. E poi per trovare un equilibrio è necessario un intervento normativo delle istituzioni internazionali: le cose non si cambiano solo attraverso le scelte individuali e il consumo consapevole, per una transizione così importante serve la politica. Ad esempio andrebbero ripensati i sussidi per gli allevamenti intensivi, che ancora ci sono. Bisognerebbe ritornare a un consumo di carne molto più limitato e magari proveniente da allevamenti sani: su questo tema c’è una grande attenzione da parte delle giovani generazioni, soprattutto nei Paesi occidentali. Sta crescendo la carne fatta in laboratorio: oggi costa molto meno che in passato e tra 10 anni potrebbe diventare normale consumarla. Anche sul pesce ovviamente va fatta una riflessione, per ridurre gli allevamenti che pure hanno un enorme impatto ambientale».

Un’alimentazione a base vegetale su larga scala comporterebbe comunque dei rischi, come la deforestazione?

«In realtà no, perché come dicevamo riducendo gli allevamenti intensivi si libererebbero le terre arabili che oggi sono destinate alla produzione di alimenti come in particolare soia e cereali, che servono a nutrire gli animali. Ci sarebbero dunque molte più terre a disposizione per le necessità dell’uomo. È comunque una transizione gigantesca, non facile e non immediata, anche perché intorno agli allevamenti si sono costituiti sistemi economici che non possono essere smantellati dal giorno all’indomani».

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Il giornalista Stefano Liberti, autore di saggi sull'ecosistema alimentare

Perché in Italia l’impatto dei cambiamenti climatici sull’agricoltura è più marcato che altrove?

«In Italia l’impatto del cambiamento climatico si misura in modo più marcato rispetto ad altri Paesi europei, a causa dell’enorme aumento, da noi più che altrove, di eventi atmosferici estremi e di fenomeni siccitosi. L’aumento delle temperature ha anche moltiplicato la presenza di parassiti nei campi, come la cimice asiatica che ha colpito duramente le coltivazioni nel Nord Italia. Tutto questo provoca un calo di produttività che viene poco raccontato. Alcuni esempi: nel 2019 la cimice asiatica ha stroncato del 60% la raccolta di pere in Emilia-Romagna; nel 2020 la produzione di pomodoro da industria è diminuita del 30% in provincia di Foggia, perché mancava l’acqua; quest’anno ci sono state delle gelate nel mese di aprile con un impatto sulla produzione vinicola. Abbiamo una crisi permanente dell’agricoltura, rispetto alla quale non troviamo corrispondenza al supermercato, ma solo perché importiamo i prodotti dall’estero. Questo però è un problema gigantesco per gli agricoltori, che va risolto non solo con i risarcimenti ma ripensando i paradigmi. Qualche esempio? Ripensare le coltivazioni che necessitano di troppa acqua, come il mais nel Nord Italia, o puntare sulla ricerca per esplorare nuove soluzioni. Il tema è ancora troppo assente nel dibattito pubblico».