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Transizione

In nome del clima #2: biodegradabile non (sempre) significa ecosostenibile

Sfatiamo mensilmente alcuni credo sull’ambiente, il cambiamento climatico e la transizione energetica. N°2: non basta sostituire gli imballaggi di plastica con contenitori “bio” per un impatto ambientale zero.

Negli ultimi anni sono state adottate sempre più politiche volte a ridurre l’uso degli imballaggi in plastica, a favore di quelli ecosostenibili, con l’obiettivo di diminuire l’inquinamento. Tuttavia, quel che intendiamo con “biodegradabile” molte volte non corrisponde a quel che siamo portati a immaginare: si pensa infatti che tutto ciò che è biodegradabile si possa decomporre in natura senza impatto ambientale, ma non è del tutto corretto.

Un materiale classificato come biodegradabile non ha necessariamente un basso impatto ambientale: spesso alcuni tipi di imballaggio così definiti devono essere sottoposti a processi di smaltimento industriali che producono emissioni inquinanti, e non si degradano in natura in tempi brevi senza conseguenze sull’ambiente.

“Biodegradabile” e “compostabile” non sono sinonimi: un materiale compostabile è anche biodegradabile, ma un materiale biodegradabile non è necessariamente compostabile o ecosostenibile. Rispetto al materiale biodegradabile, quello compostabile si disintegra completamente in tempi più brevi (nel giro di poche settimane), e dopo il trattamento può essere riciclato per essere utilizzato come fertilizzante naturale o trasformato in biometano.

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(Foto di Stephen Yang/The Solutions Project © Climate Visuals)

La differenza tra “biodegradabile” e “compostabile” «disorienta parecchio non solo i consumatori, ma anche diversi scienziati», ha spiegato Jason Locklin, direttore dell’Istituto dei Nuovi Materiali all’Università della Georgia, negli Stati Uniti. Inoltre gli stessi progettisti di materiali biodegradabili spesso non hanno ben chiare le conseguenze dell’intero ciclo di vita del prodotto, come si legge sul New York Times.

La carta, ad esempio, è di per sé riciclabile, eppure negli imballaggi di tipo alimentare viene spesso integrata con strati di plastica, alluminio o altri materiali che hanno la funzione di protezione (è il caso di certe confezioni di patatine ad esempio), ma che al tempo stesso rendono praticamente impossibile il riciclo.

E ancora: gli imballaggi in acido polilattico (PLA) vengono definiti biodegradabili in quanto ricavati dalla lavorazione del mais o altre piante, e sono molto diffusi perché sarebbero potenzialmente smaltibili in poche settimane. Il problema è che questo tipo di imballaggio si decompone rapidamente soltanto attraverso un processo industriale, in grado di garantire temperature molto elevate e una certa umidità; se venissero dispersi in natura, senza le giuste condizioni, potrebbero volerci mesi o anni prima di raggiungere la degradazione completa.

Solo se un materiale è classificato come compostabile si ha quindi la certezza che, dopo il deterioramento definitivo del prodotto, nell’ambiente non finirà alcuna sostanza artificiale, quindi che quel prodotto è realmente ecosostenibile.