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Transizione

Cambiamento climatico: si fa presto a dire "adattiamoci"

Alcune misure per contrastare la crisi climatica finiscono, senza volerlo, per aggravarne le conseguenze. Spesso perché non si considerano tutte le variabili del contesto, denuncia un rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).

In un recente rapporto dell'Onu è emerso il tema del cosiddetto "disadattamento" al cambiamento climatico, ossia la circostanza che iniziative intraprese per contrastare il climate change finiscano (involontariamente) per aggravarne le conseguenze, soprattutto a causa di scarse capacità di pianificazione. Un problema, questo, che tecnici ed esperti dovranno a quanto pare tenere sempre più in considerazione.

Qualsiasi misura di contrasto al cambiamento climatico porta con sé un certo grado di rischio, ma le manifestazioni di questi stessi rischi sono a volte molto complesse da riconoscere: cercare di individuarle in anticipo sfruttando approcci non convenzionali, come per esempio quelli suggeriti dalla sociologia, può aiutare la scienza a limitare l'impatto della crisi climatica sulle società e gli ecosistemi, permettendo così di salvare numerosissime vite.

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Lo studio in questione, curato dall'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il principale organismo internazionale per la valutazione dell'emergenza climatica, ruota proprio intorno a questo concetto di disadattamento climatico. Per comprendere di cosa si tratta può essere utile approfondirne la tipologia.

C'è innanzitutto quello "infrastrutturale", che si può ricollegare a quanto avvenuto per esempio nelle isole Kiribati del Pacifico centrale, dove negli anni Duemila un piano governativo sponsorizzato dalle Nazioni Unite per la costruzione di una diga contro le mareggiate provocò un'erosione in un'altra area della costa. Il disadattamento climatico di carattere "istituzionale" fa invece riferimento a quanto accaduto, ad esempio, in California tra il 2007 e il 2009: durante un periodo di intensa siccità si notò che una serie di aiuti e prestiti concessi agli agricoltori per coprire i mancati guadagni ridusse, nel lungo periodo, la loro stessa capacità di mettere in pratica misure alternative per affrontare le successive crisi idriche.

​​La terza e utlima tipologia di disattamento climatico, quella "comportamentale", si è verificata in Ghana, quando durante una stagione priva di piogge molti agricoltori lasciarono del tutto il loro lavoro nei campi in cerca di un'altra occupazione: successivamente le precipitazioni tornarono a essere abbondanti, ma sul mercato non si trovavano quasi più professionisti che garantissero i raccolti.

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I casi analizzati di disadattamento climatico ci insegnano, tra le altre cose, che le misure per sfavorire le conseguenze del riscaldamento globale non possono mantenere un unico approccio per qualsiasi contesto. Spesso i responsabili della pianificazione e progettazione degli interventi vivono distanti dalle aree su cui andranno ad agire, e non considerano del tutto i feedback o le preoccupazioni della popolazione locale, segnala il rapporto dell'IPCC. Al contrario lo sviluppo di strategie di mitigazione dovrà tenere maggiormente conto delle specifiche criticità ambientali del territorio su cui si andrà ad agire, dal un lato, e degli aspetti socioculturali tipici del luogo, dall'altro, così da contribuire ad avere quadri di intervento chiari sotto tutti i punti di vista.


In generale è bene consultare a fondo le persone coinvolte sul territorio, raccogliendo anche dati di tipo qualitativo sia sulla loro conoscenza del posto, sia sulle possibile conseguenze sociali di determinati stravolgimenti climatici. In questo senso può essere utile sfruttare anche diverse discipline delle scienze sociali, tradizionalmente non associate alla ricerca sul cambiamento climatico come l’antropologia e la sociologia. Il gruppo di ricerca che ha elaborato il rapporto, non a caso, è stato organizzato con questo approccio, e contava oltre 250 persone provenienti da settori diversi, apparentemente molto distanti tra loro.

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