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Clima: cosa ci insegna il rallentamento della fusione del ghiaccio artico

Anche il climate change presenta delle oscillazioni temporanee, ma questo non va visto come una smentita della crisi climatica in atto, che continua il suo corso e si fa sempre più intensa

Negli ultimi vent’anni il ritmo di fusione del ghiaccio marino artico ha mostrato un rallentamento inatteso. Il ghiaccio marino artico è lo strato di acqua salata congelata che galleggia sulla superficie dell’Oceano Glaciale Artico e svolge un ruolo cruciale nel sistema climatico: riflette gran parte della radiazione solare, contribuendo a rallentare l’assorbimento di calore da parte degli oceani, e funge da habitat per numerose specie, tra cui gli orsi polari.

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Geophysical Research Letters, il rallentamento temporaneo della perdita di estensione del ghiaccio marino artico sarebbe legato a piccole variazioni naturali del clima, in particolare ai cicli pluridecennali delle correnti oceaniche atlantiche e pacifiche. Questi cicli influenzano la quantità di acque più calde che raggiungono l’Artico: negli ultimi anni il loro andamento ha ridotto l’afflusso di correnti calde verso il Polo Nord, compensando in parte gli effetti del riscaldamento globale su quell'area. Gli scienziati sottolineano però che si tratta di una fase transitoria, destinata a invertirsi nei prossimi anni, quando la perdita di ghiaccio potrebbe accelerare nuovamente.

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Il rallentamento temporaneo della fusione del ghiaccio marino artico è di per sé una buona notizia, ma va tenuto conto che si tratta di una tregua passeggera. Come riporta il Guardian, è molto probabile che entro i prossimi cinque o dieci anni la perdita di estensione del ghiaccio marino artico riprenda con una velocità doppia rispetto al passato. La tendenza di lungo periodo, insomma, resta quella di una progressiva diminuzione. I dati satellitari, infatti, mostrano che, rispetto al 1979, l’estensione minima del ghiaccio marino artico si è comunque dimezzata, e anche il suo spessore si è ridotto, seppur non in maniera costante. Le proiezioni indicano che, anche se i cicli naturali possono rallentare temporaneamente il processo, l’Artico di questo passo andrà comunque incontro a periodi senza ghiaccio marino entro la fine del secolo, con notevoli conseguenze sull’ecosistema locale e sulla situazione globale.

Gli studiosi sottolineano che rallentamenti come questo non sono rari nella storia del clima: anche il riscaldamento globale ha conosciuto momenti di apparente stabilità, come nel decennio successivo al 1998, prima di riprendere con maggiore intensità. II fenomeno, quindi, non deve essere interpretato come una smentita della crisi climatica in corso, ma come un’oscillazione temporanea all’interno di una tendenza di lungo periodo ben consolidata e molto preoccupante. La scienza continua a mostrare in modo inequivocabile che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane e avrà ricadute molto gravi. Per questo, ribadiscono i ricercatori, la necessità di ridurre drasticamente le emissioni in atmosfera continua a essere importantissima, indipendentemente dalle variazioni momentanee del sistema climatico.

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Nel corso della sua storia la Terra ha attraversato fasi climatiche molto diverse, ricostruite grazie alle tracce lasciate nelle rocce, nei ghiacciai e nei sedimenti. I cambiamenti climatici del passato, però, furono determinati da fattori naturali, come variazioni nell’attività solare, grandi eruzioni vulcaniche, oscillazioni delle correnti oceaniche o, in almeno un caso eccezionale, dall’impatto di un asteroide. Tuttavia, nessuno di questi meccanismi può spiegare l’aumento delle temperature medie globali osservato negli ultimi decenni, che per l’appunto è interamente causato dalle attività umane.

I cambiamenti climatici del passato, inoltre, si svilupparono quasi tutti nell’arco di migliaia di anni, mentre l’attuale crisi climatica si sta intensificando in relativamente poche decine di anni. Dall’inizio della Rivoluzione industriale, a metà del Settecento, l’umanità ha immesso nell’atmosfera miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO₂) e altri gas serra, prodotti soprattutto dalla combustione di carbone, petrolio e gas. Per molto tempo si è pensato che gli oceani potessero assorbire quasi tutta questa CO₂ – e in parte lo fanno, diventando però progressivamente più acidi – ma già alla fine degli anni Cinquanta, grazie alle prime misurazioni, si comprese che gran parte di questi gas restava nell'atmosfera, accumulandosi e contribuendo all’innalzamento della temperatura globale, con enormi conseguenze sugli ecosistemi e le specie viventi.

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