PERCHÉ
è importante
sapere dove
va a finire

L’enorme quantità di plastica dispersa si degraderà solo tra centinaia di anni: un fatto ormai noto, anche se non è facile immaginare in concreto le sue conseguenze. Un progetto che si dedica alla raccolta di reperti in plastica ancora intatti sulle spiagge, risalenti anche a 60 anni fa, fa emergere molto chiaramente perché è un problema non sapere dove finisce la plastica. Si tratta di un tema cruciale anche perché i Paesi del mondo puntano ad arrivare entro il 2024 a un trattato internazionale per ridurre la sua presenza nell’ambiente e nei mari.

q ualche anno fa Enzo Suma, una guida naturalistica di Ostuni, in provincia di Brindisi, trovò lungo la costa salentina un flacone di crema solare con il prezzo in lire, che si era conservato in maniera pressoché perfetta. Suma – che ha 41 anni, ha studiato Scienze ambientali e lavora nel turismo dal 2009 – fotografò il flacone e lo pubblicò su Facebook, raccogliendo subito un certo interesse intorno al reperto, e arrivando poi a scoprire che risaliva all’inizio degli anni Settanta. Dopo questo caso Suma ha deciso di lanciare il progetto Archeoplastica, che si dedica per l’appunto alla raccolta di reperti in plastica sulle spiagge, risalenti anche a 60 anni fa, e ne ricostruisce la storia. L’obiettivo è quello di sensibilizzare le persone sulla necessità di ridurre l’uso della plastica.

Tra le storie raccontate da Archeoplastica c’è ad esempio quella di un collirio commercializzato negli anni Sessanta e Settanta, con il tappo dalla forma trapezoidale. Suma ne ha ritrovati parecchi esemplari sulle spiagge pugliesi. Il motivo, spiega il progetto, è che la réclame del collirio consigliava di utilizzarlo in caso di occhi rossi dopo aver fatto il bagno in mare, per alleviare l’irritazione causata dall’acqua salata.

Tra le storie raccontate da Archeoplastica c’è ad esempio quella di un collirio commercializzato negli anni Sessanta e Settanta, con il tappo dalla forma trapezoidale. Suma ne ha ritrovati parecchi esemplari sulle spiagge pugliesi. Il motivo, spiega il progetto, è che la réclame del collirio consigliava di utilizzarlo in caso di occhi rossi dopo aver fatto il bagno in mare, per alleviare l’irritazione causata dall’acqua salata.

«Da sempre, anche a scuola, ci hanno detto che la plastica dura secoli e secoli – forse ci siamo anche assuefatti a queste informazioni, non riusciamo a visualizzarle davvero, quindi quando vediamo un rifiuto di decenni fa portato dal mare fa un po’ effetto»

ENZO SUMA // ARCHEOPLASTICA

archeoplastica.it

Anche se è ormai noto che l’enorme quantità di plastica dispersa nell’ambiente e nei mari si degraderà solo tra centinaia di anni, non è facile immaginare in concreto le conseguenze di questo fatto, ma il progetto Archeoplastica aiuta.

A meno di un secolo dalla sua diffusione, la plastica è oggi uno dei materiali più comuni e utilizzati. La sua praticità e la sua convenienza hanno di fatto trasformato il nostro rapporto con gli oggetti, aprendo la strada al modello “usa e getta”. Questo passaggio però non è stato indolore. Il costo più grande è per l’ambiente: la plastica è presente ormai in qualsiasi ecosistema. Un problema, questo, sempre più grande e urgente: 175 Paesi hanno deciso di portare avanti una riflessione condivisa per arrivare a un trattato, e una politica comune sul tema entro il 2024.

Grazie a questi negoziati saranno formalizzate regole e direttive per rendere il più possibile tracciabile il ciclo della plastica, dalla provenienza delle materie prime ai prodotti finiti, fino alla loro trasformazione in rifiuti. Ogni Paese dovrà attuare misure a livello regionale, nazionale e internazionale per prevenire l’inquinamento derivante dalla plastica, eliminando al contempo quello già esistente. Ma i rifiuti plastici, come in parte mostra il progetto Archeoplastica, sono tantissimi.

Grazie a questi negoziati saranno formalizzate regole e direttive per rendere il più possibile tracciabile il ciclo della plastica, dalla provenienza delle materie prime ai prodotti finiti, fino alla loro trasformazione in rifiuti. Ogni Paese dovrà attuare misure a livello regionale, nazionale e internazionale per prevenire l’inquinamento derivante dalla plastica, eliminando al contempo quello già esistente. Ma i rifiuti plastici, come in parte mostra il progetto Archeoplastica, sono tantissimi.

La plastica è presente in una miriade di prodotti. Non esiste poi un solo tipo di plastica. Dagli anni Cinquanta ne sono state sviluppate decine di varietà, ognuna con caratteristiche diverse e con un proprio e specifico impatto sull’ambiente. Sappiamo che ci sono, ma non sappiamo ancora con precisione dove vadano a finire tutte queste componenti, soprattutto per quanto riguarda le cosiddette microplastiche. Questo potrebbe essere un serio problema nel definire con precisione gli scopi del nuovo trattato.

Anche uno dei rapporti più aggiornati e rilevanti sulla plastica, prodotto dalle Accademie nazionali delle scienze, dell’ingegneria e della medicina degli Stati Uniti (NASEM), sottolinea le numerose lacune che ancora ci sono nell’analizzare il ciclo completo della plastica, e trovare soluzioni per renderla del tutto riciclabile. Il problema da risolvere con maggiore urgenza riguarda la mancanza di un sistema che sia scientificamente affidabile per tracciare e tenere sotto controllo la diffusione della plastica su scala globale, oltre che organizzare strategie per ridurre la sua presenza negli oceani.

Nella maggior parte dei Paesi del mondo, chi produce plastica deve seguire specifiche misure nel momento della produzione, mentre non presenta particolari responsabilità una volta che i prodotti in plastica vengono venduti. Per “l’usa e getta”, ad esempio, le responsabilità ricadono sui singoli individui. La questione di fondo è che non c’è modo di tracciare completamente il percorso che fa un prodotto in plastica, dalla sua produzione fino alla discarica. E, se non si sa da dove arrivano i polimeri trovati nel suolo o nell’acqua, diventa molto complicato intervenire sulla fonte che ha causato il problema.

Nella maggior parte dei Paesi del mondo, chi produce plastica deve seguire specifiche misure nel momento della produzione, mentre non presenta particolari responsabilità una volta che i prodotti in plastica vengono venduti. Per “l’usa e getta”, ad esempio, le responsabilità ricadono sui singoli individui. La questione di fondo è che non c’è modo di tracciare completamente il percorso che fa un prodotto in plastica, dalla sua produzione fino alla discarica. E, se non si sa da dove arrivano i polimeri trovati nel suolo o nell’acqua, diventa molto complicato intervenire sulla fonte che ha causato il problema.

Nel 2019 la Convenzione di Basilea sulle esportazioni dei rifiuti ha inserito quelli in plastica nella lista dei rifiuti pericolosi: si tratta di uno dei trattati internazionali più importanti su queste pratiche. Il documento non è però mai stato sottoscritto dagli Stati Uniti, uno dei più grandi produttori al mondo di rifiuti di plastica. Sono principalmente i Paesi del Sudest asiatico e dell’Africa che si prendono l’onere di gestire la grande quantità di rifiuti di plastica prodotta nel mondo, senza però avere effettivamente gli spazi e le risorse per smaltirli in sicurezza e a basso impatto per l’ambiente. I Paesi coinvolti, inoltre, sono gli stessi che subiscono la presenza di grandi quantità di rifiuti, che arrivano per esempio sulle loro coste dopo che la plastica ha viaggiato per migliaia di chilometri, galleggiando nell’oceano.

I principali paesi che favoriscono l’inquinamento dei mari con i rifiuti in plastica

FONTE:
Science.org / 2021

Le regioni dell'arcipelago tropicale hanno una maggiore emissione di rifiuti in plastica a causa della loro superficie relativamente piccola, rispetto alla lunghezza delle loro coste e agli alti tassi di precipitazione — che aumentano la probabilità che questa tipologia di rifiuti finisca in mare

FONTE: Science.org / 2021

Per ridurre questo problema si stanno sperimentando sistemi satellitari per tracciare gli spostamenti della plastica che finisce nell’ambiente e nei mari. Le rilevazioni satellitari svolte dal consorzio Copernicus dell’Unione Europea, per esempio, aiutano a identificare le isole galleggianti di plastica che si formano negli oceani e che, debitamente tracciate, possono aiutare a comprendere la loro provenienza. Gli esperti ricordano però che il problema potrà essere risolto solo rivedendo l’intero ciclo di utilizzo della plastica, riducendo il più possibile la sua produzione e migliorando i sistemi di recupero dei rifiuti e di riciclo degli stessi.

Il problema infatti è che solo una piccola parte della plastica che finisce nella raccolta differenziata viene riciclata: in Europa si arriva più o meno al 20 percento. Il resto va nelle discariche o viene bruciata, perché non è conveniente riciclarla o perché non ci sono sufficienti strutture per farlo. Da quando, a partire dal 2018, la Cina e altri Paesi asiatici hanno ridotto la quantità di rifiuti di plastica che fino a quel momento importavano dall’Europa o dal Nord America, ora costrette a riciclarla o smaltirla con soluzioni alternative, questo problema si è aggravato.

Il problema infatti è che solo una piccola parte della plastica che finisce nella raccolta differenziata viene riciclata: in Europa si arriva più o meno al 20 percento. Il resto va nelle discariche o viene bruciata, perché non è conveniente riciclarla o perché non ci sono sufficienti strutture per farlo. Da quando, a partire dal 2018, la Cina e altri Paesi asiatici hanno ridotto la quantità di rifiuti di plastica che fino a quel momento importavano dall’Europa o dal Nord America, ora costrette a riciclarla o smaltirla con soluzioni alternative, questo problema si è aggravato.

Tra i vari metodi di riciclo della plastica c’è quello meccanico. Dopo aver raccolto e selezionato la plastica, si lava il prodotto e successivamente lo si trita fino a ridurlo in flake, per poi essere riutilizzato. Ognuna di queste fasi, però, è particolarmente onerosa e spesso non porta ai risultati sperati. Inoltre non tutta la plastica è di per sé uguale, ma presenta componenti diverse al suo interno che influenzano la procedura di riciclo, e in alcuni casi la escludono.

Inoltre, la plastica che viene gettata nella spazzatura, pur rispettando la raccolta differenziata, è spesso “impura”. Questo significa che è venuta a contatto con alimenti o fattori che potrebbero comprometterne il riciclo anche in seguito alla fase di lavaggio e selezione. Bisogna poi precisare che la plastica, per sua natura, non è — a differenza del vetro — riciclabile potenzialmente all’infinito.

L’impatto ambientale dovuto alla difficoltà di riciclare meccanicamente la plastica rappresenta anche e soprattutto un costo economico: secondo uno studio del 2019, uscito sul Marine Pollution Bulletin, inquinare gli oceani con la plastica è costato finora 2.500 miliardi di dollari in mancato sfruttamento delle risorse economiche date dal mare. ◗

L’impatto ambientale dovuto alla difficoltà di riciclare meccanicamente la plastica rappresenta anche e soprattutto un costo economico: secondo uno studio del 2019, uscito sul Marine Pollution Bulletin, inquinare gli oceani con la plastica è costato finora 2.500 miliardi di dollari in mancato sfruttamento delle risorse economiche date dal mare. ◗

Riuso e riciclo sono principi fondamentali dell’economia circolare, ovvero un modello economico pensato per potersi rigenerare da solo mantenendo il flusso dei materiali in circolo il più a lungo possibile. Secondo questo approccio gli oggetti che non utilizziamo più spesso non sono semplicemente un rifiuto da smaltire (con tutte le complicazioni, i danni ambientali e gli sprechi del caso), bensì prodotti che, se rigenerati, assumono un nuovo valore economico e ambientale. L’obiettivo ultimo dell’economia circolare è quello di estrarre sempre meno risorse naturali per produrre i materiali, di limitare l’inquinamento, di ridurre le emissioni di anidride carbonica e di contrastare il cambiamento climatico. Indicata come uno degli strumenti per raggiungere i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, l’economia circolare si basa su quattro approcci (chiamate anche le 4R): riduzione, riuso, riciclo e recupero.

Il riuso è la possibilità di riutilizzare i prodotti che non sono ancora diventati scarti o rifiuti. È infatti preferibile riparare o ricondizionare gli oggetti, per evitare che finiscano in discarica, o per non alimentare le ricadute ambientali delle procedure di riciclo. Il riciclo è invece la trasformazione dei materiali di scarto in cosiddette “materie prime seconde”, utili cioè per la produzione di nuovi oggetti.

Ci sono infine i concetti di riduzione e recupero. Il primo si riferisce in particolare a chi produce imballaggi e packaging, incentivando l’introduzione di prodotti più snelli che risparmino materia non necessaria. Il recupero, invece, fa riferimento a impianti che bruciano i rifiuti – o che ne sfruttano la decomposizione – per produrre energia. Questa è considerata come la soluzione meno sostenibile, ma è comunque più proficua della discarica. ◗

Foto di archeoplastica

Il riuso è la possibilità di riutilizzare i prodotti che non sono ancora diventati scarti o rifiuti. È infatti preferibile riparare o ricondizionare gli oggetti, per evitare che finiscano in discarica, o per non alimentare le ricadute ambientali delle procedure di riciclo. Il riciclo è invece la trasformazione dei materiali di scarto in cosiddette “materie prime seconde”, utili cioè per la produzione di nuovi oggetti.

Ci sono infine i concetti di riduzione e recupero. Il primo si riferisce in particolare a chi produce imballaggi e packaging, incentivando l’introduzione di prodotti più snelli che risparmino materia non necessaria. Il recupero, invece, fa riferimento a impianti che bruciano i rifiuti – o che ne sfruttano la decomposizione – per produrre energia. Questa è considerata come la soluzione meno sostenibile, ma è comunque più proficua della discarica. ◗

Foto di archeoplastica